Bulat Šalvovič Okudžava (Mosca, 9 maggio 1924 – Parigi, 12 giugno
1997) è stato un cantautore e poeta russo di origini georgiane, esponente del
genere musicale russo chiamato “Canzone d'autore”. Ha composto oltre duecento
canzoni ed è stato pluripremiato per la sua poetica, impostata sul genere del
canzoniere, poi ripresa da altri cantautori come il francese Georges Brassens. Fu conosciuto come
poeta e bardo (cantautore) dopo gli anni cinquanta e considerato un pericolo per
le sue poesie e canzoni: famoso all’estero e con l’impossibilità di pubblicare
in patria. Si narra che Breznev,
avesse espresso il desiderio della sua morte, consapevole però di aumentare ancor più la sua popolarità diffusa tra i russi che cantavano le sue canzoni per
strada, nelle locande e nei bar, in particolare nelle fredde sere dell’inverno
russo. Un poeta armato di chitarra e dotato d’ironia. Suo padre, attivista del
Pcus, rivoluzionario della prima ora, cadrà vittima di una delle tante purghe:
fucilato negli anni ’30. Sua madre, militante anch’essa, berrà l’acqua
congelata del Gulag per 19 anni. Altri nove fra i suoi parenti furono fucilati
e poi tutti riconosciuti innocenti. Bulat,
appena diciassettenne, correrà ad arruolarsi volontario per difendere il suolo
patrio dalla minaccia nazista e sarà più volte ferito.
E aprirà gli occhi sulla guerra come alleata
della superbia e dell’avidità e canterà della sofferenza esprimendo la
compassione.
GUERRA VIGLIACCA
Ah, guerra
che hai fatto vigliacca!
I nostri
cortili sono divenuti silenziosi.
I nostri
bambini alzavano la testa,
diventavano
grandi prima del tempo.
Si facevano
appena vedere sulla via
e partivano:
soldati, soldati...
Arrivederci,
ragazzi! Ragazzi,
cercate di
tornare indietro! (...)
Ah guerra
che hai fatto vigliacca!
Al posto
di nozze – distacchi e fumo.
Le nostre
ragazze hanno donato
gli abiti
bianchi alle sorelline. (...)
Il ritmo delle
poesie ha una radice comune con le canzoni del bardo: parte dallo stomaco,
attingendo alla tradizione dei canti, lenti prima e con picchi successivi in
seguito, propri dei battellieri del Volga e delle nenie e dai racconti delle
gesta degli eroi, degli amanti e della malattia, e quindi della vecchiaia e
della morte. Bulat non offre teoremi
e spiegazioni: esprime negli atti quotidiani l’orrore della guerra.
<<Non credere alla
guerra, ragazzo,
non crederci, la guerra
è triste,
è molto triste ragazzo,
la guerra è stretta come
le scarpe
I tuoi bravi cavalli
non ci potranno far
nulla,
tu sei tutto sul palmo
della mano
tutto i fucili ti
puntano.>>
/-/
E Bulat lo esprime con una tenera ironia
che fa sorridere commossi. Il poeta confessa durante un concerto: «Quand’ho iniziato
conoscevo tre accordi di chitarra, ma ora, dopo trentacinque anni di lavoro son
migliorato... ne conosco cinque!»
Come
cantare l’orrore e il terribile con dolcezza e compassione:
Concerto a Parigi, 1995. Premi QUI
CANZONE DELLA FANTERIA
Scusate la fanteria,
se talvolta è così
stolta:
sempre partiamo
quando sulla terra
scoppia la primavera.
E con passo incerto
sulla scala che vacilla
salvezza non c’è.
Solo salici bianchi
come bianche sorelle ti
guardano andare
Non credete al tempo,
quando riversa piogge
protratte.
Non credete alla
fanteria,
quando canta balde
canzoni.
Non credete, non
credete,
quando negli orti
gridano gli usignoli.
La vita e la morte
non hanno ancora saldato
i conti.
A noi il tempo ha
insegnato:
vivi come il bivacco,
aperta la porta.
Compagno uomo,
è pur seducente la sorte
tua:
tu sei sempre in marcia,
e solo una cosa ti
strappa dal sonno.
Perché noi partiamo
quando sulla terra
scoppia la primavera?
/-/
Era scomodo e temuto Bulat perché ascoltato da chi non
leggeva e cantato da chi aveva lo sguardo basso, rivolto alla terra che è il
vero motore di ogni ribellione e rivolta del popolo russo.
IN GUERRA CONTRO UN PAESE STRANIERO
In guerra contro un
paese straniero il re partiva.
Un gran sacco di
gallette la regina gli preparò,
il vecchio mantello con
gran cura gli rammendò,
tre pacchetti di
sigarette e anche il sale gli fornì.
E le sue mani sul petto
del re andò a posare
e gli disse,
carezzandolo con sguardo raggiante:
“Suonagliele bene,
altrimenti passerai per pacifista
e di far bottino di
buoni panforti non dimenticare”
E il re vide che
l’esercito stava in mezzo al cortile:
cinque soldati tristi,
cinque allegri, e un caporale.
Disse il re: “ Non ci fa
paura la stampa, né il temporale.
torneremo vittoriosi
dopo aver sconfitto il nemico vile!”
Ma presto finì
l’esultanza dei discorsi trionfali.
In guerra il re cambiò
l’assetto delle truppe:
i soldati allegri senza
indugio intendenti nominò
e i tristi, soldati li
lasciò: “ Così non sarà male!”
Pensate un po’:
sopravvennero poi i giorni vittoriosi.
Dei soldati tristi dalla
guerra nessuno tornò.
Il caporale di dubbia
morale una prigioniera sposò,
ma catturarono un gran
sacco di panforti saporosi
Suonate, orchestre;
echeggiate, canzoni e risate!
A mestizia effimera non
ci si deve abbandonare.
Non aveva senso per i
soldati tristi in vita restare
e poi non bastavano per
tutti i panpepati.
/-/
E non poteva essere imprigionato o ucciso, perché esprimendo
la compassione di un popolo per i suoi figli, la condizione di martire avrebbe
amplificato il suo messaggio ancora oggi vivo e attuale.
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