La paura della perdita talvolta scaturisce dalla dissoluzione
delle cose e delle memorie. E ancora di più nell'incapacità di comprendere ciò
che appare. L'assenza di una risposta e la fuga dei significati causano la
paralisi. Nonostante tutto cerchiamo anche esteticamente di attribuire un
significato che ci permetta di concepire un ventaglio di possibilità, per
determinare uno spazio di esistenza nel futuro.
Abbiamo paura del moto delle acque e della terra, che aprono
le porte al vortice e al gorgo. Fuggiamo da essi, ma l'occhio ne è attratto.
La stasi risulta dalla consapevolezza dell'inutilità della fuga e
dall'attrazione verso il pericolo massimo, perché avvertiamo la suggestione di
una nuova forma di esistenza e di conoscenza del mondo.
E allora che si provi a sedere nel ciglio delle coste a ridosso
del mare evocato dai gorghi. Si veda lo specchio di quel fondale infinito che è
il nostro timore. Due abissi che si incontrano vorticando nel centro
dell'angoscia.
E impietriti, lasciamo avvicinare il vento artico che indugia
sulle nostre spalle, contrastato dalla calda corrente dei Sargassi, crepitando
colori argento del nord con i corrispettivi viola del sud, nel nostro fuscello
d'esistenza.
E si acconsenta a trasfigurarsi nella vela dei venti e abbracciare
tutte le gocce del possibile. Come un marinaio che cerca la rotta nell'occhio
dell'uragano. Dell'uragano che è il suo stesso occhio.
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“Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich (1774-1840) - Immagine presa QUI |
Per ascoltare Into The Sea di Sivert Hoyem premere QUI
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